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Critical anthology

 

ANTOLOGIA CRITICA SELEZIONATA
 

ludovico pratesi, presentazione in catalogo, mostra personale alla Galleria Arco di Rab, Roma,1994

Silenzio e riflessione

“Silenzio e riflessione” di Daniela Monaci propone una attitudine di ascolto, una percezione che va al di là del semplice sguardo. Le sue opere richiedono la concentrazione necessaria per aprire un dialogo per consentire una partecipazione reale, uno scambio intenso e vitale con l’osservatore. È la ricerca di una armonia mentale, di una comunione poetica, che rifiuta l’evasione e chiede un incontro, una possibilità di vedersi e di toccarsi a partire dalla “cognizione del dolore”, della consapevolezza della solitudine e della fatica del vivere, individuale e sociale.

Non urlare, ma sussurrare 
Le mani giunte, che fuoriescono dal muro, conoscono il dolore del mondo. Da questo nasce il loro gesto. Un gesto dolce e fermo, drammatico e rassicurante (…). Una riflessione sulla presenza dell’uomo nel mondo, individuale e corale allo stesso tempo, che utilizza il corpo come strumento di relazione e veicolo di speranza. Al di là di “Posthuman”, degli arti di Robert Gober, degli escrementi di Kiki Smith o dell’obitorio di Andres Serrano, che descrivono con un pragmatismo spietato gli orrori del presente, forse ci sono altre strade. Daniela Monaci ci invita a cercarle. Domani sarà possibile percorrerle?

Sguardi
Un occhio cerca un altro occhio. Nello sguardo è implicita una ricerca di relazione, un desiderio di rapporto, di legare insieme, anche per un solo attimo, i destini di due persone. Lo sguardo non è mai conversazione, ma dialogo. L’occhio trova l’altro occhio, trasmette il proprio messaggio con i segreti codici dell’espressione: allora scaturisce l’intesa. Daniela Monaci ha fotografato gli occhi di tre donne diverse, li ha aperti, fotocopiati su stoffa e montanti su piccoli telati quadrati. Ora quegli occhi, isolati dai loro contesti originari, ci guardano, cercano i nostri per comunicare, per instaurare una relazione che tocchi i recessi più profondi e lontani dell’essere. Non siamo abituati ad essere scrutati da una folla di occhi senza volto. Proviamo un certo disagio, quando la nostra pupilla incontra le altre, quelle piccole presenze così cariche di umanità. Ma poi lentamente cominciamo a riflettere.

Un dialogo sullo spazio e sul tempo

Ludovico Pratesi: “Dicevo prima che il tuo lavoro richiede una attitudine di ascolto particolare; si direbbe che, più che l’opera in sé, come oggetto o come singola immagine, ti interessi la rete di relazioni spaziali in cui cerchi di coinvolgere l’osservatore, l’attitudine di ascolto, appunto, a cui lo inviti”. Daniela Monaci: “È vero. Do molta importanza alla relazione con l’osservatore. I miei lavori rifiutano un punto di osservazione unico e privilegiato. Invitano chi li guarda a muoversi nello spazio e a percorrerlo. Questo continuo spostamento non è solo del corpo, ma anche del pensiero. La mente è chiamata ad indagare, accordare, separare, in un tessuto di relazioni spaziali relative e in possibile trasformazione”. Ludovico Pratesi: “La frammentazione che caratterizza la tua ricerca è uno strumento per creare questo tessuto di interrelazioni spaziali”. Daniela Monaci: “La frammentazione è per me una necessità linguistica, come fonte di mutamento e trasformazione. Mi pare che aiuti a visualizzare uno spazio e un tempo che conoscono la relatività. Ogni mio lavoro, piccolo o grande, trova il senso del suo esistere non solo in sé, ma nelle possibilità che indica; sembra cosciente della sua parzialità e del bisogno di relazionarsi. Così è per gli sguardi: ognuno esiste per sé, nella sua specificità, ma nello stesso tempo è coinvolto in una trama di rapporti. Così è per le mani: gesto singolo e corale insieme. Le immagini o gli oggetti che appaiono sul bianco della parete in modo sparso sono come punte di un iceberg e rimandano a ciò che è dietro. Così i vuoti diventano possibili pieni. Mi interessa che l’osservatore sia stimolato a sentire anche la presenza di ciò che è invisibile, che non si dà direttamente allo sguardo, ma è comunque presente. Cerco la percezione di uno spazio non statico e in cui sia impossibile una unica affermazione, una compatta certezza, uno spazio che lasci intravedere diverse relazioni, che inviti a interrogarsi su possibili, più sottili, livelli”.

 

  

SABRINA ZANNIER, presentazione in catalogo, mostra personale alla Galleria Il Segno, Roma; Studio Arte Recalcati, Torino, dicembre 1996

Poetica dell’abbandono
Gesti annegati, fluttuanti, immersi in profondità oceanicouterine, in cavità dilatate, che eludono il principio della marginalità di uno spazio sommesso e nascosto, per ampliarsi virtualmente come si trattasse di frames cinematografici, di porzioni di un mondo di cui è impossibile afferrare tutta l’estensione. Corpi ripresi di scorcio, corpi avvicinati a tal punto da divenire materia stessa dell’immagine, corpi pulsanti nei lievi passaggi chiaroscurali, corpi diafani e impalpabili, corpi radiografati per ridivenire fisici solo nella proiezione mentale. Da dove nascono, in quale luogo avviene il loro movimento di argonauta e la loro metamorfosi in corpiembrioni e in corpipaesaggi, che li pone come assoluti protagonisti del sottile equilibrio fra la triplice dimensione corpoanimamente?

Una cattura immediata, ma discreta e poetica Così mi sono trovata immersa nelle immagini di Daniela Monaci, avvolta da un etereo e nel contempo pregnante mento blu, steso oltre ogni confine, avulso da una qualsiasi linea d’orizzonte, anche blanda e incerta. Tutto blu, cadenzato a ritmi più cupi e più chiari, cangiante tra un verde più freddo e la calda accensione di una sottile componente gialla. (…) Questa è la risposta di Daniela Monaci, la narrazione sincronica di corpi e gesti che trasportano la mente e l’anima in territori lontani; corpi e gesti che non alludono a un’espressione individuale: come nell’impianto filosofico di Kundera, nella loro interazione unificante portano il sapore dell’immortalità. Da qui la perdita del ricordo, delle appartenenze di quei gesti iniziali, delle mani che sfiorano i corpi, dei corpi che toccano altri corpi, che si aprono o si ripiegano su se stessi. Da cui il senso di abbandono, che implica l’idea di allontanamento da parte di chi lascia qualcuno o qualcosa. Ciò che Monaci abbandona a se stessa, con tutto il corpo, la mente, lasciati allo sguardo e all’abbraccio di un osservatore che per questo si sente direttamente coinvolto in una “raccolta”, dolcemente catapultato in un’apparenza connotata dal presagio di un viaggio per immagini, morbidamente plasmato dall’eterno femmineo.

Diaframma freddo
(…) Daniela Monaci non rappresenta. Svela un umore temporale, partendo dalla realtà del corpo e dalla contemporaneità dei media tecnologici, dalla leggerezza dell’informatica. Ho parlato di pulviscolo d’atomi, di minute particelle per alludere alla perdita di una fisica e grave concentrazione formale. La stessa entità trova però anche una sua specifica fisicizzazione nell’unità elementare della superficie dello schermo di visualizzazione, dove l’artista rielabora le fotografie. I minuscoli pixel non sono visibili solo a Monaci nella durata del proprio lavoro: si ripresentano nell’immagine finale, nelle cibachrome che portano con sé, questa volta ineluttabilmente, una memoria, quella del computer. L’immagine appare quasi texturizzata, indotta dall’intensa luminosità e dal colore di ogni suo punto, porta con sé il principio di una sintesi che fa da contrappeso all’abbandono, introducendo una distanza, una sorta di schermo, di filtro raffreddante. L’assenza di peso delle figure umane, così come dalla struttura del linguaggio, che mi ricorda la leggerezza calviniana, non implica un abbandono totale ma un controllato intervento che si riflette nella reiterazione della visione offerta dal video, in quel diaframma tra noi e l’immagine, che lascia quest’ultima costantemente sospesa e inafferrabile. (…)

 

ROSSELLA CARUSO, presentazione in catalogo, mostra personale al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Roma, 1998

Movimento

Ci chiedevamo, con Daniela Monaci, quanto e come quella visione notturna dei volteggi ginnici di Nadia Comaneci – nelle riprese televisive della famosa olimpiade di Montreal del 1976 – avesse dato avvio al suo progetto per la mostra al Museo Laboratorio. Sembrava, in effetti, che all’origine di quell’ultimo lavoro ci fosse proprio quell’immagine visuale in movimento, che era apparsa, anche nell’ovattata e un po’ distratta circostanza, come suggestivamente sintetica, icastica; naturalmente rispetto ai suoi già avviati percorsi progettuali. Quale migliore presentazione del movimento? e di quale movimento si tratta? È indubbio che alla resa del movimento la Monaci dediche da anni tempo e riflessioni; qualche volta anche riconnettendosi alla storia delle arti visive. Le sue più recenti immagini fotografiche, manipolate al computer, hanno come essenza la presentazione di corpi femminili – e al femminile – che nascono da gestualità in divenire e suggeriscono andamenti spaziali. (…) Come un’apparizione notturna – come scrive e racconta Daniela stessa, che nella notte ha concepito gran parte delle sue opere – la perfetta rotazione del corpo flessuosissimo della Comaneci le si era dunque proposta come la quintessenza di “quel” movimento che in fondo cercava. Nel video – in mostra – la reiterata sequenza e l’assoluta armonia dei gesti della ginnasta rumena, infatti, inseparabile espressione di una compiutezza al limite dell’umano. Il movimento stesso nasce e muove un giovane corpo, reso incorporeo da ore e ore di estenuanti esercizi. L’esibizione rivela come la perfezione dell’esito possa essere inversamente proporzionale all’evidenza della fatica e al virtuosismo tecnico (…).

Leggerezza e incorporeità

Scrive Italo Calvino a proposito della leggerezza: “La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio.” Questo, come altri passi delle sue Lezioni americane, ha accompagnato il lavoro della Monaci (…). È chiaro adesso come, intervenendo sul frammento video della Comaneci, l’artista abbia voluto afferrare un’immagine felice e in sé compiuta, che fosse sintetica espressione e comunicazione di quella leggerezza. Leggerezza come sottrazione di peso corporeo e visivo, ma comunque espressione corporea visiva. Quella leggerezza e impalpabilità della visione sul monitor è riprodotta dal gesto, anch’esso reiterato, che sparge sul pavimento polvere di colore giallo. La Monaci si appropria, riproducendola, di quella levità che riconosce alla giovanissima campionessa. Il rettangolo entro cui quest’ultima si esibisce non costituisce un limite per la libera espressione del suo corpo, così come lo spazio circoscritto dal pigmento giallo setacciato è territorio dai confronti sfumati e indistinti in cui si compiono e recuperano ritualità ancestrali. Nell’uno e nell’altro caso le permormance sono evidenziate ed esaltate dalla circostanzialità degli spazi occupati.

Spazialità

Terzo momento dell’esposizione – che si presenta come unitaria realtà tutta da esplorare – è rappresentato da una sorta di mappa, costruita con discreti segni a matita sulla parete lunga e convessa del museo. Anche in questo caso, la forte connotazione del luogo espositivo dialetticamente s’impone. L’allusione ai grafici, che delle coreografie rendono la sequenza dei movimenti dei danzatori, è solo una delle possibili letture, peraltro giustamente suggerita dalla vicinanza del video della ginnasta. Daniela Monaci ci spiega che si tratta, in realtà, della contigua disposizione di numeri che, nati casualmente dalla tetrade pitagorica – indicata in basso a destra a conclusione del tracciato – vanno a disegnare grandi e piccole curve tra loro intersecantesi. Ma questi numeri, che pure scaturiscono da in rigoroso sistema combinatorio, non definiscono spazi certi e percorribili, né li rappresentano proiettivamente. Anche se originano dalla carte nautiche, non indicano luoghi e profondità misurabili. Possono al più comunicare un forte e sgomento senso di spaesata piccolezza, o rievocare, nel felice andamento delle linee, ampi percorsi in espansione. Ma di paesaggi totalmente immaginari; di un cosmo o di un mare desolatamente astratto, punteggiati d’indizi, evocativi quanto impercettibili. Di spazi, in realtà, fatti di niente o di poco, lasciati volutamente incustoditi, per dare libero accesso e sfogo all’immaginazione proiettiva di chiunque; con l’unica clausola che, di ognuno, la soglia d’ascolto riesca a percepire quei suoni ipnotici, emessi dal monitor, che riempiono l’aria di sottili vibrazioni.

 

DANIELA LANCIONI, testo in catalogo, mostra personale alla Galleria Il Segno, Roma, ottobre 2000

Corpi umani, il più delle volte femminili e nudi, compaiono spesso nei lavori di Daniela Monaci. Sono ripresi con l’obiettivo della macchina fotografica e rielaborati al computer. L’autrice non ne modifica la fisionomia che rimane la stessa di quando li ha fotografati. Impiega invece il computer per definire la composizione dell’intera immagine, per inventare una nuova luce e un inedito spazio. Per questo motivo di fronte alle sue opere non prevale la sensazione di osservare qualcosa che si è verificato prima e altrove. Non c’è memoria dell’ambientazione originaria, né si percepiscono le tracce di un set costruito ad hoc ed è questa la ragione per cui molti suoi lavori ottenuti con tecniche fotografiche partecipano la natura dei quadri. I corpi femminili che appaiono nella maggior parte dei “dipinti” esposti in questa mostra sono tutti immersi in una atmosfera perlacea. Intensità diverse di grigio graduano dal quasi bianco al grigio fumo. Non compare lo scuro dell’antracite, come anche non agiscono i contrasti. I valori tonali sono prossimi al monocromo. Accade lo stesso in una serie di lavori precedenti dove i corpi sono modellati con l’indaco, il blu cobalto, l’azzurro manganese, il blu pavone, il blu oltremare chiaro e il celeste che è anche lo sfondo dove i nudi fluttuano. In queste opere recenti le diverse gradazioni di grigio sono accostate con sfumature così tenui che i volumi ricavati dal loro chiaroscuro non si impongono con evidenza, ma si lasciano scoprire con una lenta attenzione. Il genere di monocromo messo in opera da Daniela Monaci, allora, viene da pensare, non esprime un processo di riduzione, un intento di tabula rasa, ma sembra corrispondere alla scelta di limitare sì il campo delle opportunità, ma per poter esprimere all’interno dell’elemento eletto il maggior numero di differenze. La riduzione dei valori di contrasto, inoltre, nel caso delle opere in mostra, sprigiona una luce lattea che viene naturale associare al tipo di percezione uditiva di un rumore attutito, assorbito, fatto scomparire. In alcune circostanze naturali come quella di un luogo avvolto dalla nebbia o di un paesaggio innevato si può fare esperienza del nesso che corre tra un’atmosfera pervasa di chiaro e l’assenza di rumore. Occorre ripensare al tutto bianco e al silenzio che nella cultura artistica contemporanea esprimono un’attitudine mistica rivolta ad affinare la percezione, la disponibilità ad accogliere il mondo. Malévich, Rauschenberg, Fontana, Manzoni e Cage per il quale il silenzio, fatto oggetto delle sue opere, non esiste, perché “né lo spazio vuoto, né un tempo vuoto. Qualcosa da vedere, qualcosa da sentire c’è sempre”. Ci allontaniamo dalla condizione individuale mossi da un desiderio di comprensione universale. (…)

CRISTINA MUNDICI presentazione in catalogo,
mostra personale alla Galleria Recalcati Arte Contemporanea, Torino, maggio 2000

Insieme formano un ritmo

Questo mi scriveva Daniela Monaci alcuni mesi fa a proposito del ciclo di opere che, adesso, avvolgono lo spettatore al suo ingresso in galleria: insieme formano un ritmo. Insieme: pur trattandosi, ognuno, di un lavoro compiuto in se stesso, essi acquistano senso pieno se accostati l’uno all’altro, le forme dell’uno e le forme dell’altro. D’altronde, Daniela Monaci ha spesso lavorato, in questi ultimi anni, a installazioni, cioè a opere che si distendono in uno spazio dato, in un’unitarietà di visione. Ritmo: colti nella loro totalità, se ne percepisce con maggior forza la qualità ritmica, quasi modulazioni tonali di uno stesso suono. Nella ripetizione, con varianti, di un unico tema (le gambe nell’atto di camminare) viene evidenziato, da una parte, il soggetto nella sua caratteristica primaria (il camminare è fatto di un passo dietro l’altro, di un gesto ripetuto mai uguale a se stesso); e, dall’altro, lo svaporare dell’atto fisico di una meditazione più profonda (dal camminare all’attraversamento, al percorso, al viaggio, all’essere nel mondo). Lo scarto di senso è favorito dalla particolare qualità della rappresentazione: i colori della realtà sono ridotti a varie intensità di grigio, manca qualsiasi orizzonte raggiungibile o qualsiasi terreno su cui poggiare e, soprattutto, la resa formale di questi lavori è ricca di echi alla tradizione figurativa. Si mescolano, in queste opere, riferimenti alla classicità e in particolare al rilievo (il monocromo sembra rimandare al rilievo reso bidimensionalmente) alla plasticità di forme di certa pittura del Quattrocento, prima fra tutte la volumetria di Piero della Francesca, alla statuaria classica o meglio alla sua elaborazione neoclassica (Canova e dintorni). La tensione di Daniela Monaci è comunque verso una estrema qualità finale, che si nutre dell’idea del bello e del sublime. Il quotidiano, che tanta parte ha nell’arte contemporanea, spesso colto nella sua rudezza e volgarità, nel lavoro di Daniela Monaci è recuperato con attenzioni di purezza e semplicità. È una sorta di atto costitutivo dell’opera, da far proprio e da superare con linguaggio quasi musicale. Oltre il rumore del quotidiano, mi scriveva ancora l’artista: sottraendo peso e fisicità alle sue figure, alleggerendole cromaticamente, con grande raffinatezza tecnica, Daniela Monaci fa della rappresentazione di un gesto vibrazione luminosa, della materia spirito

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MARISA VESCOVO, presentazione in catalogo, D’aria, d’acqua, di terra, gennaio 2005

Daniela Monaci, o l’occhio amoroso dei sensi

La storia della nascita della fotografia è una storia che ci narra dell’immagine – di tutte le immagini, indipendentemente da tutte le loro diverse e specifiche tecniche di produzione – come simulacro di una presenza divenuta assenza, nel suo sorreggersi su un equilibrio indivisibile tra presenza e assenza, e del suo affondare originario in una economia del desiderio. Desiderio, dice André Bazin, di vincere la morte, di salvare l’assenza mediante l’apparenza, di affiancare al mondo esterno un suo doppio incorruttibile, e non logorabile, dall’opera, mortale, del tempo. Permane per tutti l’idea dell’immagine e della sua nascita come atto d’amore, come appassionato desiderio di “salvare” e rendere presente un “reale” che è divenuto, o sta per diventare, assente.
Una tecnica quella della fotografia in cui precipitano tutti i racconti precedenti sulla nascita dell’immagine, invitando le sue nuove avventure ad incamminarsi verso due possibili, ma diverse, fondamentali storie, o paradigmi culturali: il paradigma della produzione e della riproduzione. Roland Berthes ha scritto: “In latino ‘fotografia’ potrebbe dirsi: ‘imago lucis opera expressa’, ossia immane rivelata, ‘tirata fuori’, ‘allestita’, ‘spremuta’, (come succo di un limone) dall’azione della luce”.
A mio avviso è proprio muovendo questa “pelle” condivisa e dai “raggi differenti di una stella”, che fa precedere il suo lavoro creativo Daniela Monaci, la quale vuole gettare “altra” luce sulle sue immagini riprodotte, inducendoci a dire che le sue fotografie non sono dei “segni macchiati di realtà”, ma una realtà macchiata di segno. Se partiamo dalle serie di opere dal titolo “d’aria d’acqua di terra”, ci pare che l’artista, presentando i suoi alberi brinati, ricami di luce sul bianco del fondo, trine che tremano in un refolo di freddo, avvolti dal candore lattiginoso delle nuvole basse, e dalla luminescenza della neve, metta in moto l’erranza dello sguardo, l’abbandono liricomemoriale, l’impeto epico, la pausa elegiaca, il tono veloce del linguaggio di oggi, proponendoli senza soluzione di continuità in una coabitazione di tempi e di lingue diversi, ma che lavorano fianco a fianco. Una coabitazione di linguaggi, un mutare di forme che slittano l’una sull’altra, e ci dicono, col mormorio dell’acqua, la felicità di essere ciò che sono. Immagini e frammenti di icone prelevati senza soluzione di continuità da quel tessuto impuro e vorticoso che è la vita, colta in flagrante nel momento stesso in cui scorre, o si deposita in frammenti di memoria. In questo magma di immagini che passano dallo stato acquoso a quello gassoso, abisso di superfici abbaglianti, in cui ogni cosa naviga nel nero dell’indifferenza genetica, il problema non riguarda più solo ciò che si vede e ciò che ha avuto luogo, ma la relazione, il processo e le forme attraverso cui una mutazione può installarsi all’interno di un’immagine, di ogni immagine. Non c’è dubbio che questa è in fondo una metafora sullo stato contemporaneo dell’immagine, che vuole raccontarci anche qualcosa del suo passato e del suo futuro, riaffermando il primato dei processi sui risultati. (…) Nei lavori della Monaci esiste un atto della visione, e del sentimento, che si pone in anticipo rispetto ai moti di questa “nuova pittura” fotografica e della sua poesia. In tal senso la natura, come infinita convessione delle cose, ininterrotta nascita e distruzione delle forme, si mostra esteticamente nel paesaggio. È attraverso questa sorta di rivelazione che l’artista trasforma in oggetti estetici quelle che prima erano pure e semplici cose naturali. Ciò che più importa, al di là dell’esteso registro di queste riflessioni sulla fotografia di paesaggio, segno di un’incalzante passione per il “nuovo” sentimento della natura, è la trama delle relazioni tra il mondo delle forme e l’immaginazione, che nel caso della Monaci è anche legata al corpo e all’uomo. (…) In fondo l’artista sceglie oggi la narrazione per sequenze di immagini (nel cinema si chiamerebbero piani sequenza), e per simboli, come possibilità di costruire opere piene di luci e di ombre, di vuoti e di pieni, che portano verso orizzonti in trasformazione – in una continua oscillazione di presenza e assenza – in cui angoscia, malinconia o felicità diventano la pelle dell’esistenza, in cui cade il diaframma fra vita e spettacolo, tra vivere ed essere di scena, esistere in una sovrana indifferenza e avere la possibilità di sopravvivere nonostante tutto. Daniela Monaci ha capito bene che l’accordo con se stessi, l’assenza di dissidi interiori, nasce piuttosto dall’accondiscendenza, dal portare il proprio assenso a quanto la natura suggerisce, dall’adattarsi a ciò che emerge, nasce, e si rinnova con lo scorrere della vita, col transito incessante in cui siamo immersi.

 

EMANUELA NOBILE MINO, presentazione in catalogo, D’aria, d’acqua, di terra, gennaio 2005

Per vedere un mondo in un granello di sabbia
e un Paradiso in un fiore di campo mettete l’infinito
nel palmo della mano e l’eternità in un’ora.
William Blake

(…) Affascinata non tanto nell’equilibrio, effimero, apparente, instabile tra le cose, quanto piuttosto dall’evento singolare e vibrante che lo precede e ne causa la manifestazione, ovvero il caos, la vertigine, lo stato di eccitazione e di alterazione degli atomi, in cui tutto potenzialmente può accadere e verificarsi, sia che essi si combinino o che, altresì, vadano disgiungendosi, Daniela Monaci racconta nelle sue immagini l’universalità dell’essere attraverso la rappresentazione della comune appartenenza ad un ciclo energetico che muove e causa la rivelazione del mondo e il suo continuo divenire. È la volontà di decifrare e rappresentare la seduzione della casualità a dare impulso alla sua ricerca, nella convinzione che il ribaltamento delle prospettive favorisca l’epifania di nuove possibili chiavi di lettura dell’universo, costituendo forse addirittura il modo più immediato e congenito di decodificare certi meccanismi che regolano la realtà. Una vertigine è allora ciò che riassume la rivoluzione sempre in atto, mentre il liberatorio volteggiare a bordo di una giostra, la metafora capace di sintetizzare gli effetti: come quando si fa il giro della morte sulle montagne russe, così, quando si osservano alcuni lavori della Monaci, può succedere di trovarsi improvvisamente ad osservare il mondo a testa in giù, e avvertire che, pur esaminandolo sottosopra, questo resta invariato, coerente, possibile, è soltanto la disposizione delle sue componenti che appare ribaltata di fronte ai nostri occhi, non certo la logica delle sue evoluzioni e il senso delle aggregazioni che in esso si attuano. “Oggigiorno i fisici spiegano che i fenomeni non esistono solo obiettivamente dentro e di per se stessi, ma esistono in termini di, in relazione con chi li percepisce, con l’osservatore. Ho la sensazione che l’argomento del rapporto tra materia e coscienza sia un punto in cui la filosofia orientale – in particolare quella buddista – e la scienza occidentale potrebbero incontrarsi. Credo che sarebbe un matrimonio felice, senza divorzio”. Come la ricerca di un senso dell’esistenza non trova risposte in un’unica direzione, ma richiede un’esplorazione a 360°, spingendoci ad indagare, ad ascoltare e a prestare attenzione alle relazioni di dipendenza tra diversi fattori, così la condizione in cui la Monaci mette l’osservatore – disorientandolo capovolgendo il suo sguardo sulla realtà – si configura come una chance di sollecitare la percezione, amplificarla, permettendo che questa abbandoni la sua gabbia, il preconcetto, e si impegni a comprendere l’interdipendenza che lega gli eventi, le cose, le persone e il loro potere di condizionarsi vicendevolmente. Appresi questi principi, ecco che può apparire verosimile la visione del cielo che precipita e del mare che s’innalza fino al cielo, e che insieme nella loro primordiale e tumultuosa unione, ci restituiscano l’intuizione del processo originario, dell’atto creativo nel suo divenire. e, ancora, si può arrivare ad immaginare che un pavimento cosmatesco improvvisamente si scomponga e permetta che alcune maglie del suo tessuto geometrico si allentino per trasformarsi in pedine volanti da cui farsi trascinare lontano, in cerca di nuovi accordi e nuove coerenze (come nel video Per visibilia ad invisibilia, 2003) concedendoci di osservare il mondo da una prospettiva inedita, atta magari a mostrarcelo come unità condizionata e designata “dipendentemente” dalle sue parti.

GIANLUCA MARZIANI, Misteri del corpo, misteri dell’emozione, 2005

Conosco Daniela Monaci da dieci anni, da quando realizzò un’installazione di mani ed occhi che stuzzicava i sentimenti altrui, chiedendo partecipazione emotiva, pathos e intensità (quasi) fisica dello sguardo sensibile. Gli occhi di svariati volti si fissavano su tele quadrate dello stesso formato, mentre le sculture bianche riproducevano mani che accarezzavano l’aria, ma anche gli ignari spettatori, con gesti morbidi ed armoniosi. Una mostra che raccontava il corpo per sottrazioni fisiche e addizioni emozionali, costringendoti a scrutare la totalità dentro il frammento, la luce dietro pupille chiuse, la vita dentro quegli occhi fissi verso di noi.
È trascorso un decennio e l’artista ha sperimentato linguaggi, indagato lo spazio ambientale, tessuto fili tra installazioni e video, dando comunque centralità ad una fotografia che si sposta per formati, tecniche, stili. Ribadendo le ragioni del corpo frammentato, fu giusta la serie fotografica in cui DM inquadrava gambe, anche qui verso la concentrazione dell’assenza dentro la presenza, lungo una rarefazione nebulosa delle atmosfere, fortemente percepibili ma anche specchio di un’instabilità tutta al femminile.
DM sta edificando un prisma multiforme in cui dimora la complessità spigolosa della Donna, uno sguardo trascendente che sceglie la vita da un’ottica femminile, le relazioni tra persone, i gesti universali del reale. Per DM l’arte deve ricercare questa trascendenza nella prosa del quotidiano. Per DM il corpo diventa metafisico, annulla la staticità muscolare e sembra leggerissimo, morbido come una figura primordiale dentro i liquidi amniotici dell’esistenza. L’artista scruta la bellezza, evidente o celata, nella sua geografia astratta. Però non vuole eccitare o spostare l’asse su aspetti feticistici. Al contrario, si interessa al passaggio di energie tra persone, al modo in cui un gesto racchiude storie nascoste, eventi catalizzanti, vicende che ci somigliano, poeticamente e crudelmente. Quei dettagli del corpo sono i nostri pezzi mancanti, il mondo che ci avvolge ma di cui spesso perdiamo consapevolezza. Siamo noi i protagonisti di DM, sia nel campo ravvicinato che nelle panoramiche in un parco pubblico.
Due installazioni fotografiche, non a caso, scrutano prima gli estranei che si distendono su prati verdi, poi altre presenze che occupano panchine dello stesso parco. Si tratta di persone fotografate da lontano, in modo rispettoso e sensibile, secondo un amore profondo per la vita che scorre attorno. Le due installazioni si compongono a scacchiera e desiderano spiazzarci nel loro voyeurismo diurno, replicando matrici identiche che narrano individui con una vibrazione sempre autonoma, unica come ogni singola storia di ogni singola persona. Molte entità esercitano per DM una forza attrattiva che si trasmette sulla pelle dei soggetti prescelti. Per anni era il corpo la dimensione centrale del suo universo, oggi il paesaggio sta occupando un campo lungo che contiene ulteriori emozioni, rinascite vitali, sguardi trascendenti che disegnano fili invisibili tra persone e natura. Fondi senza orizzonte, quinte impossibili, pigmenti gialli di una vecchia installazione, dittici dove uno dei pannelli si inarca in campiture di nero, prati, cieli, città… partire nel colore e tornare nel colore, passando dai fondali su cui vibrano i primi lavori ai cieli in cui svettano gli alberi rigogliosi. Dieci anni di visioni per cercare il battito dei sentimenti. Un lungo progetto che invita a crescere attraverso le molteplici identità di uno sguardo. La vita che nasce, d’altronde, sta in ogni opera, dentro i pezzi di una creatività silenziosa e mai didascalica. Una vita che, come alcuni cicli, sbuca dal nero di una quinta misteriosa, da un’oscurità che non è buio ma soltanto l’attesa della prossima luce: quella di tutti i corpi che vogliono presenziare, ancora una volta, allo spettacolo stupefacente del mondo.

 

LUCA VONA, www.exibart.com, novembre 2006

Rosso e nero. Vita e morte. e un’arte che sfida la poesia. Le nuove opere dell’artista romana in una personale che ruota attorno alla potenza del colore. Quadri o fotografie? No, fotopitture... Il titolo della personale che la galleria Dieffe dedica a Daniela Monaci (Fotopittura) porta in primo piano la tecnica che ormai da diversi anni accompagna la ricerca dell’artista. Si tratta di scatti fotografici rielaborati al computer per dare vita ad icone sospese in una dimensione le cui coordinate spaziali e temporali rimangono nell’incertezza.
La forza di queste immagini deriva proprio dalla capacità della Monaci di trasfigurare pochi elementi quotidiani per scandagliarne il mistero e le potenzialità semantiche ancora inespresse. Sapere ascoltare il mondo che ci circonda e dare voce agli elementi che lo compongono testimonia una sensibilità, una vocazione che è propria soprattutto del poeta. Si potrebbe pensare ad una facile forzatura nell’interpretare il lavoro in chiave biografica, poiché l’artista è nipote del recentemente scomparso Mario Luzi, probabilmente il più importante poeta italiano del secondo Novecento. Ma di fatto, al di là della tekné, dell’impiego comunque sempre misurato delle nuove tecnologie, l’elemento fondante di questi lavori sta nella capacità di plasmare immagini che esprimono eloquentemente il disagio e le speranze del nostro tempo, attingendo alla storia della pittura italiana senza mai cadere in uno sterile citazionismo. Così sono da intendersi l’esasperazione dei contrasti cromatici e chiaroscurali che richiamano la pittura caravaggesca o la metafisica contemporanea di un’immagine in cui ombre minacciose attorniano un anonimo personaggio della classe media lavoratrice. Come un pittore, la Monaci si confronta di volta in volta con diverse dominanti cromatiche.
Molti dei lavori presenti in questa mostra hanno come protagonisti quasi assoluti il nero e il rosso, espressione dell’affermazione e della negazione assolute, del desiderio e dell’oblio, di una lotta tra energie vivificanti e pulsione di morte.
Attraverso una figurazione e una narratività mai didascalica, l’artista ha cercato di tradurre in immagini la propria percezione di una realtà che oggi più che mai prende vita dal conflitto, tra popoli, culture, società, tradizioni. “Di tutte le cose Polemos è il padre” affermava il filosofo eraclito di efeso. Daniela Monaci sembra essere d’accordo, e il suo stesso lavoro prende forma dal collimare e dal collidere di tempi, luoghi e tecniche differenti. Forse la realtà contemporanea ha origine davvero da una sorta di “incidente”, la cui portata epocale è ridimensionata, ma resa non meno drammatica nella figura della giovane tailandese che custodisce in grembo la sua stessa testa. Ma sembra esserci ancora spazio per la speranza. Come testimonia il placido abbandono di un neonato tra le braccia materne, gli occhi chiusi di fronte all’abisso…